MOVIMENTO BEAT

MOVIMENTO BEAT

DATE:
1964-1968 c.a.

GRUPPI E LUOGHI:
“La cava” – sede di «Mondo beat» (Milano), gruppo I palumbo (Milano), gruppo Gli Uccelli (Roma), Beatnik’s clan (Monza), gruppo C13 (Lucca), gruppo I cavalieri del nulla (Roma), Gruppo Stanza (Compiobbi-Firenze); Libreria Hellas (Torino), Galleria L’Uscita (Roma), piazza di Spagna (Roma), Beat 72 (Roma), “Barbonia City” (Milano), Comune di Ovada (Alessandria), Comune di Terrasini (Palermo).

RIVISTE:
«Mondo Beat» (1966-1967, Milano), «Esperienze Due» (1967, Lucca), «Grido beat» (1967, Milano), «Il messaggero beat» (1967, s.l.), «il Ribelle» (1967, Monza), «Il tuono viola» (1967, Lucca), «Noi la pensiamo così…e Via» (1967, Lucca), «Off Limits» (1967, Torino), «Pensiero» (1967, Brescia), «Pensiero beat» (1967, Cinisello Balsamo – Milano), «Provo» (1967, Milano), «Stampa libera» (1967, Cinisello balsamo – Milano), «The Beatniks» (1967, Monza), «Uomini» (1967, Torino), «Urlo beat» (1967, Milano), «Urlo e grido beat» (1967, Milano), «Pianeta fresco» (1967-1968, Milano); «MAI» (1968, Milano)«Voce beat» (1968, Cinisello Balsamo – Milano).

CASE EDITRICI:
East 128 (Milano); Ed. 912 (Milano); Feltrinelli (Milano); Pitecantropus (Torino).

EVENTI:
Reading di poesie Gioco giardino (Lissone, 21 gennaio 1967); reading di poesie presso il locale Tantra (Roma, 22 aprile 1967).

DESCRIZIONE:
La storia del fenomeno beat inizia negli Stati Uniti con la poesia della beat generation già nei primi anni Cinquanta per coinvolgere rapidamente anche i paesi europei. Alcuni poeti della beat generation, tra cui Burroughs, Ginsberg, Corso e, in seguito, Kerouac, approdano a Parigi nella metà degli anni Cinquanta eleggendo come loro sede l’Hotel Rachou – conosciuto come “Beat Hotel” – spostandosi successivamente anche in altre città europee, compresa Milano; le loro poesie vengono tradotte in francese nel 1960 da Jean Jaques Lebel e conoscono negli anni successivi una larga diffusione in tutta Europa avviando un processo di imitazione dello stile di vita che la poetica beat comunica, fondato sulla rivendicazione della libertà personale contro i valori condizionanti e autodistruttivi della società consumistica. Molti giovani, influenzati dal sistema valoriale del beat, portano i capelli lunghi – in Italia si guadagnano per questo motivo l’appellativo di “capelloni” – come segno evidente di dissenso nei confronti delle norme di comportamento di una società che giudicano borghese e conformista; si allontanano dalle loro famiglie per condurre una vita on the road basata sulla rinuncia agli agi del benessere, ma libera da condizionamenti e aperta alle nuove esperienze, e assumono inoltre la musica di Bob Dylan, dei Beatles e dei Rolling Stones, oltre che tutta una serie di modelli culturali presto diventati miti, come forma di autorappresentazione. Colpita dalla censura in vari Paesi e divisa tra contestazione e mercificazione, la musica rappresenterà all’interno del movimento il veicolo identitario più forte e i concerti, come sarà evidente a cavallo tra gli anni ‘60 e ’70, costituiranno il momento aggregativo più ampio e significativo. Il fenomeno beat nel suo complesso trova diverse espressioni tanto che risulta difficile restituire una panoramica esaustiva dell’intero movimento, estremamente composito al suo interno e trasformatosi presto in una tendenza culturale diffusa, ambiguamente caratterizzata da una componente controculturale di opposizione, da cui si svilupperà il movimento giovanile di protesta che sfocerà nel Sessantotto, e dalla commercializzazione del fenomeno da parte dello stesso sistema economico e sociale da esso contestato. Dall’interno del movimento o legate ad esso si sviluppano forme di protesta più definite e organizzate, come quella dei Provo, e da esso ha certamente origine il vasto fenomeno conosciuto nell’immaginario collettivo come fenomeno hippie. La prima manifestazione del movimento beat in Italia può considerarsi la comparsa, intorno alla metà degli anni Sessanta, dei cosiddetti beatniks per le strade delle città, spesso provenienti dall’estero; nello stesso periodo arriva la nuova musica dall’America e dall’Inghilterra, mentre la poesia della beat generation viene introdotta grazie alla pubblicazione di volumi come Poesia degli ultimi americani (Feltrinelli, Milano 1964) e Jukebox all’idrogeno di Allen Ginsberg (Mondadori, Milano 1965), tradotti e curati da Fernanda Pivano. I giovani beatniks italiani cominciano a riunirsi spontaneamente nelle piazze, nelle strade e nei bar di molte città, in particolare Milano, Torino e Roma, e di alcuni centri minori. Il fenomeno del beat esplode tra il 1966 e il 1967 quando si formano dei gruppi relativamente più strutturati e i loro luoghi di ritrovo diventano sedi più o meno stabili per attività organizzate – in particolare per la pubblicazione di riviste – oltre che crocevia di incontri e mete d’approdo per i giovani in viaggio attraverso l’Europa. Accanto ai centri attivi nelle città si diffondono anche delle comuni istallate in zone marginali o extraurbane, come quelle di Terrasini in Sicilia e di Ovada nell’entroterra ligure. Tra i primi gruppi formatisi si deve ricordare il C 13 di Lucca, che è tra i più attivi nuclei beat assieme al Beatnik’s clan di Monza; rimane in particolare nella memoria dei protagonisti la “cava”, a Milano, sede di uno dei più importanti gruppi beat del periodo, quello della rivista «Mondo beat», sicuramente la più rilevante tra le decine sorte in quel periodo. Al gruppo milanese, tra le tante iniziative, si deve la realizzazione in città di un grande campeggio libero, soprannominato “Barbonia city”, utilizzato dai tanti giovani senza dimora e indigenti che compongono il movimento e che rivela il volto meno noto del beat italiano, spesso associato nell’immaginario a ambienti più borghesi e “modaioli”, e a locali notturni di tendenza come il Piper di Roma. Le varie anime del movimento sono tuttavia accumunate da alcuni temi caratterizzanti a livello internazionale come il pacifismo, in primo luogo, ma anche l’ecologismo, la libertà sessuale, le filosofie orientali e l’utilizzo di stupefacenti come esperienza sensoriale e esistenziale; non è possibile individuare una definita tendenza ideologica, sebbene in Italia l’orientamento di sinistra appaia preponderante, con la presenza di forti istanze anarchiche e libertine, unito tuttavia a una spiccata avversione nei confronti delle ideologie assiomatiche che connotano il periodo e in primo luogo del comunismo, che non appare più come una reale alternativa al modello capitalistico. Le attività dei Beat, specie a Milano e a Roma, diventano a tratti difficilmente distinguibili da quelle di provo, situazionisti e anarchici con i quali collaborano anche per la realizzazione di alcune riviste e organizzano incontri per l’elaborazione di strategie comuni, come la “manifestazione delle manette” a Milano nel 1966 e l’assemblea dei movimenti a Carrara nel 1967, ma si veda in questo senso, soprattutto, l’esperienza della stessa «Mondo beat». Queste attività testimoniano di una forte osmosi tra le componenti del più generale movimento di dissenso culturale di quegli anni: si deve ricordare a questo proposito l’organizzazione di numerose azioni di protesta collettive a carattere pacifista, come le grandi marce antimilitariste, le manifestazioni contro la leva obbligatoria e la guerra in Vietnam, oppure quelle a favore della liberalizzazione dei costumi sessuali e dell’uso della pillola anticoncezionale. Durante le manifestazioni politiche i partecipanti si servono frequentemente di azioni dimostrative di tipo artistico e performativo. Percepiti sin dall’inizio come disturbatori della quiete pubblica a causa di una diversità esibita e irriducibile ai costumi del tempo, e in seguito come movimenti di vera e propria opposizione, i capelloni vengono di fatto perseguitati dalle forze dell’ordine e le loro manifestazioni represse, mentre i quotidiani – in particolare il «Corriere della sera» – intraprendono campagne denigratorie nei loro confronti. Man mano che il fenomeno comincia tuttavia a diventare di interesse pubblico, i media e l’industria culturale, specie quella musicale, si servono dell’immagine di questa “gioventù ribelle” per lanciare nuovi prodotti sul mercato, come i tanti gruppi musicali cosiddetti “beat” e alcune mode nel vestiario. Davanti a questo tipo di appropriazione e di integrazione del fenomeno, i beat italiani, estremamente consapevoli del processo in atto, non fanno mancare il loro impegno a difesa dei “veri” valori del beat. Grazie all’utilizzo del ciclostile, che permette la stampa in proprio di numerosissimi fiori di carta come volantini, manifesti, antologie poetiche, piccole plaquette e soprattutto riviste, i giovani beatniks creano infatti un canale di informazione alternativo che rappresenta il veicolo di diffusione primario dei principi che animano il movimento e costituiscono una forma consapevolmente elaborata di contrapposizione ai circuiti culturali e di comunicazione ufficiali. All’interno delle riviste, e in generale nelle varie attività beat, la scrittura poetica assume un ruolo essenziale come parte integrante della pratica di dissenso, poiché rappresenta una delle principali forme d’espressione e di affermazione di un diverso ideale di vita, nonché di una diversa idea di collettività: oltre a essere veicolata dalla stampa la poesia viene infatti propriamente recitata dagli stessi poeti durante reading improvvisati per le strade o organizzati come eventi, così che la fruizione orale del testo diventa occasione sociale di aggregazione. Si avvia in questo modo un processo diffuso di teatralizzazione e di spettacolarizzazione della poesia, debitore delle sperimentazioni effettuate nell’ambito dell’avanguardia letteraria, che connoterà particolarmente gli anni Settanta come elemento costitutivo di molte pratiche controculturali e artistiche. Tra i reading più ricordati dai protagonisti vi sono il Giardino gioco di Lissone – vicino a Milano – e il reading organizzato al locale Tantra di Roma nel 1967, oltre che le numerosissime performance poetiche organizzate dal Beat 72, storico locale dell’underground romano e noto animatore del fenomeno del teatro delle cantine o Nuovo teatro. La proposta poetica si lega alla convinzione, confermata dalle linee editoriali di molte riviste beat, della necessità di operare una contestazione politica e culturale a partire da una rivoluzione dei linguaggi, con la creazione di una modalità alternativa di espressione che coinvolga e intersechi tra loro tutti i codici: di questi intenti sono manifestazione proprio le pratiche performative, ma anche, ad esempio, i primi tentativi di sperimentazione tipografica e illustrativa che, tuttavia, vedranno un migliore sviluppo negli anni successivi al Sessantotto. Le produzioni a stampa del beat italiano sono infatti tendenzialmente molto sobrie, a causa della mancanza di mezzi economici, e come ricorda Matteo Guarnaccia (cfr. Beat e mondo beat, Stampa Alternativa, Viterbo 1996) sono più simili a quelle del Samizdat che al modello delle colorate e curate riviste del beat americano, anche se le principali riviste beat presentano i disegni innovativi di quello che può essere considerato l’illustratore ufficiale del movimento, Giò Tavaglione. Da questo punto di vista fa eccezione la rivista «Pianeta fresco», fondata da Fernanda Pivano assieme al marito Ettore Sottsass e a altri intellettuali e artisti, il cui titolo viene suggerito direttamente da Allen Ginsberg: la rivista vanta grandi collaborazioni internazionali, mentre l’impaginazione e la grafica vengono costruite sul modello delle riviste americane come il «San Francisco Oracle», anticipando gli sviluppi della stampa psichedelica in Italia. Fernanda Pivano – una figura centrale, ma sotto molti aspetti eccentrica rispetto al movimento – dà ospitalità ai beatniks nel suo “salotto” milanese e svolge un fervido lavoro all’interno di grandi case editrici come Mondadori e Feltrinelli per la promozione e la diffusione della letteratura beat italiana e internazionale; per conto di Feltrinelli, cura in particolare una collana economica di poesia beat che, tuttavia, non avrà grandi sviluppi. Feltrinelli tenta infatti di promuovere il fenomeno beat attraverso la pubblicazione di volumi come il romanzo Il paradiso delle Urì di Andrea D’Anna (1967), ma anche di fogli e manifesti del movimento, e pubblica significativamente anche l’ultimo numero di «Mondo beat», in segno di solidarietà per lo sgombero forzato di “Barbonia City” nel 1967. A fronte della sostanziale ritrosia rispetto al fenomeno da parte del circuito editoriale ufficiale, all’interno del beat italiano si sviluppano anche i primi germi della futura esoeditoria undergroud, con la creazione di piccole “case editrici” senza autorizzazione, come le Ed. 912 di Milano animate tra gli altri da Marco Maria Sigiani, Antonio Pilati e Gianni Sassi, futuro art-director di «Alfabeta», e legate a «Mondo beat» e all’area situazionista, o la Pitecantropus di Torino, diretta dal poeta Gianni Milano, che porta avanti con successo il progetto di una collana di poesia Beat. Il movimento si disperde in mille rivoli con l’esplosione del Sessantotto, che in parte “ingloba” il movimento e in parte porta alla diaspora di molti dei suoi animatori: l’ondata sessantottina sposta infatti il focus delle proteste sulle rivendicazioni studentesche e operaie, che contrastano in certa misura con lo spirito libertario dei beatniks e con la loro diffidenza nei confronti dell’ideologia comunista, eppure molti dei temi sviluppati negli ambienti beat rimangono alla base degli ideali della rivoluzione culturale del Sessantotto e le pratiche controculturali da essi inaugurate caratterizzeranno fortemente i fenomeni di dissenso degli anni successivi.

BIBLIOGRAFIA:
Per una panoramica d’insieme sul fenomeno si rimanda ai seguenti volumi: F. Pivano, C’era una volta un beat, Arcana, Roma 1976; Beat e mondo beat. Chi sono i beat, i provo, i capelloni, a cura di M. Guarnaccia, Stampa alternativa, Milano 1996; P. Echaurren e C. Salaris, Controcultura in Italia 1966-77. Viaggio nell’underground, Bollati Boringhieri, Torino 1999; J. P. Bouyxou e P. Delannoy, L’aventure hippie, 10/18, Parigi 2004; M. Guarnaccia, Underground italiana, Shake, Milano 2011.

 

[Giovanna Lo Monaco]
[scheda aggiornata al 12 novembre 2018]